Estratto da

La salvaguardia del patrimonio architettonico veneto
a cura di Elena Ballini

Regione del Veneto, s.d., (ma 2008)



Guglielmo Monti


DUE STRATEGIE PER IL RESTAURO


E' ormai abbastanza accertato che il restauro, quale oggi lo intendiamo, sia nato insieme all'architettura contemporanea, tra la semplificazione illuminata della fine del XVIII sec. e l'affermarsi del neogotico nella prima metà del XIX sec. Prima, in mezzo e, con alcuni strascichi, dopo, fiorisce il neoclassico, estrema manifestazione del classicismo moderno, fondato sull'autorità del mondo antico. La codificazione dell'attività di rivitalizzazione del passato che come pratica celebrativa è sempre stata concessa alla produzione di architettura, in quel periodo fatale trova le sue prime e fondanti manifestazioni, che pertanto, sin dagli esordi, sono ambiguamente partecipi di entrambi i movimenti.

Possiamo trovare nella passione neoclassica per le scoperte archeologiche e per il collezionismo museale, da Winckelmann a Canova, l'espressione di una grande reverenza verso i reperti dell'antichità classica, ma non può sfuggirci la presenza di una componente illuminista tendente a riunire sotto il segno della ragione i segni più illustri della cultura mondiale in luoghi istituzionali e a farne i prototipi dell'arte universale. Nel contempo è chiaro che un simile obiettivo, proprio per il suo ecumenismo, apra la strada a possibili connubi eclettici.

D'altro canto lo sperimentalismo neo gotico, reperibile, pur con le note formulazioni tecniche contrapposte, sia in Ruskin che in Viollet-Le-Duc, se per un verso si presenta come apertura verso la varietà dei diversi medio-evi nazionali, al di là dell'omologazione classicista è d'altronde caratterizzato da una forte volontà unitaria di carattere ideologico, connotata da caratteri simili ad alcune formulazioni illuministe, quali la sincerità dei materiali e dell'impianto. Si vede quindi come le due correnti siano apparentate, più di quanto non sembri dalle loro scelte più appariscenti, da un contrasto non risolto tra disponibilità ad accogliere il passato nella molteplicità delle sue manifestazioni e volontà di fondare su di esso un rinnovamento precisamente indirizzato. Pur non essendo naturalmente affetta da tale dicotomia tra filologia e scelta stilistica, l'architettura contemporanea riflette la propria analoga nascita ambigua nel dilemma mai sanato sino ad oggi, tra libertà eclettica di elaborazione formale e sua riduzione al grado vero.

Così cariche di dubbi, le due pratiche della cura dell'antico e della produzione del nuovo, ormai divaricata, arrivano nel novecento ad una netta divisione dei campi, che sottende però una strategia comune. Mentre i costruttori del futuro propugnano un'ideologia della riduzione del patrimonio storico a pochi campioni esemplari, da lasciare come ricordi decontestualizzati in un tessuto insediativo totalmente nuovo, i cultori del passato elaborano una pratica restaurativa adatta a congelare per l'eternità quei pochi monumenti.
 Questa spartizione di compiti fondata sulla demolizione da un lato e sull'imbalsamazione dall'altro, entra però in crisi dopo la seconda guerra mondiale, quando appare chiaro che l'avanguardia architettonica non ha prodotto una nuova forma aggregativa convincente e quindi riprende forza, nutrita dalle distruzioni belliche, la nostalgia della vecchia città, nata nell'ottocento con gli abbattimenti delle mura urbane. Cominciano nel nuovo gli ammiccamenti della tradizione, mentre il culto del vecchio perde la sua vocazione unitaria alla cura monumentale e si divide profondamente.

Sul versante del vecchio mondo della conservazione, crolla la fiducia nei restauri definitivi, fondati spesso sul mito di un cemento armato supposto eterno e rivelatosi invece piuttosto effimero negli ultimi decenni del novecento. Prende invece sempre più piede il prestigio dell'immagine, che porta a superare lo scrupolo di autenticità, sostenuto fino allora grazie ad acrobatiche anastilosi tecnologiche o a magici incollaggi chimici. Al suo posto, in barba alle raccomandazioni accumulate nelle corti del restauro da una riflessione secolare, si diffondono le ricostruzioni in stile, nate nel dopoguerra dal sentimento di appartenenza offeso dalle brutali aggressioni e diffuse in periodi più recenti con la complicità dei riflussi post-moderni. Bisogna riconoscere che, se si è disposti a sacrificare l'azione del tempo sulle forme e la loro intima connessione tra immagini e struttura, è più facile ritrovare la vecchia solidarietà tra restauratori e distruttori.

Questi ultimi possono, infatti, compiere la propria opera di sostituzione con più tranquillità se qualcuno garantisce loro la possibilità di rifare, volendo, le immagini di un tempo, magari adattate alle nuove tecniche costruttive e alle attuali esigenze impiantistiche. E d'altronde i conservatori possono rinunciare alle preoccupazioni filologiche e agli imbarazzi derivanti dalle sovrapposizioni temporali, perché se il passato si può ricreare, allora si può anche scegliere di restituirlo nella sua forma migliore, nuovo di zecca. Tutt'al più, in omaggio al prestigio dell'anzianità, si potrà sempre antichizzare un po’ il rifacimento, anche per renderlo più plausibile. La vastità dei danni di guerra e la spregiudicata volontà di rivalsa della ricostruzione determinano però anche una più matura coscienza del valore determinante che i contesti assumono nei confronti delle emergenze monumentali. Nella desolazione delle rovine, palazzi e cattedrali appaiono isolati e insufficienti a dar conto delle glorie passate, mentre ogni rifacimento in stile, pur dando soddisfazione alla nostalgia, manifesta uno sradicamento e una sfiducia nella storia con più evidenza dei complessi ruderali. Riprendono allora fiato le ricerche avviate negli anni '30 sull'architettura "minore" e sui valori dell'ambiente naturale e costruito. Con l'aiuto degli studi europei sui patrimonio rurale e sull'archeologia industriale, si determina, nei confronti delle ricerche anteguerra, un interessante cambiamento di prospettiva. Mentre, infatti, quelle concezioni, informatrici della prima legge italiana sulla tutela ambientale, si basavano sull'estetica dei "quadri naturali", delle manifestazioni eccezionali e degli sfondi ai monumenti, la nuova riflessione ambientalista porta verso una nozione di paesaggio estesa all'insieme dei fenomeni formativi del territorio.

Superata così ogni selezione estetizzante, si sposta l'attenzione sull'intima connessione esistente, nel tempo, tra tutte le attività che determinano la forma degli insediamenti, dove le emergenze monumentali perdono il loro ruolo di assoluti protagonisti per assumere quello dí importanti tasselli di un mosaico più vasto.

E' evidente che, in una simile prospettiva, il bene culturale non è più un oggetto speciale di cui occorre curare la musealizzazione o la falsificazione, bensì una forma di rispetto consapevole da estendere a tutte le manifestazioni vitali. Altrettanto chiaro dovrebbe risultare che un quadro così vasto da accogliere al proprio interno il mutamento, la cui regolazione secondo modalità che prevedono un dialogo armonico tra passato e futuro diventa fondamentale e difficilmente scindibile dalle attività restaurative.

A quest'opera di cura attiva del territorio come bene culturale sono chiamate le politiche agricole come le attività industriali, il turismo come la salvaguardia dei monumenti, l'edilizia e la toponomastica. E' un intero Paese che dovrebbe perseguire prioritariamente quest'obiettivo attraverso le sue diverse attività, che così cesserebbero finalmente di essere confliggenti e contradditorie.

Ma evidentemente lo sforzo richiesto risulta eccessivo, comportando un radicale cambiamento rispetto a quella comoda divisione di ruoli tra conservatori e distruttori che abbiamo visto all'opera nel corso del novecento e continuiamo ad incontrare oggi nelle sue forme più devastanti. Non troviamo, infatti, nel panorama attuale una scelta tra i due versanti del culto del passato e questa pericolosa ambivalenza si riflette negli strumenti legislativi più recenti, come il "Codice Urbani", come anche nelle pratiche di tutela del patrimonio.

Può essere interessante capire, per guardare da vicino le conseguenze di una simile dicotomia, come cambiano i criteri di apposizione dei cosiddetti "vincoli" e di concessione di finanziamenti a seconda che si aderisca all'una o all'altra filosofia d'iniziativa culturale. Se si considera oggetto della tutela il paesaggio, visto nel suo insieme come mosaico dei beni culturali e terreno di composizione tra passato e futuro, è conseguente non falsare nessuno dei due aspetti e quindi adottare modalità conservative incentrate sulla maggior integrità materica compatibile con le esigenze attuali, piegando, se necessario queste ultime alle preesistenze. Nell'attività vincolistica si dovrà attuare la minor selezione possibile, giudicando reperti anche modesti come opportunità di approfondire l'identità dei luoghi e di scavare nelle vicende temporali. In questa direzione lo stesso strumento del vincolo come delimitazione dell'area di interesse appare uno strumento provvisorio, da utilizzare senza remore in una situazione confusa come l'attuale, ma destinato a venir superato da una gestione oculata di tutto il territorio, attenta a praticare quella che già la carta europea del restauro, nel '75, definiva "conservazione integrata".

Mano a mano che ci si avvicina a questo traguardo, i confini delle aree vincolate dovrebbero tendere a cadere come incongrue limitazioni di un'azione che per essere veramente efficace deve estendersi all'intero ambito antropizzato. Nel frattempo le zone su cui si esercita la tutela dovranno essere, secondo una simile concezione, abbastanza estesa da includere, insieme al bene interessato, tutte le pertinenze che ne rappresentano il contesto e ne determinano il senso.

I criteri per la dichiarazione di interesse cambiano radicalmente per chi antepone il valore dell'immagine della realtà materica delle preesistenze e pensa quindi di poterle rifare quando vuole, servendosi delle risorse tecnologiche odierne. In questo caso, essendo il contesto riproducibile, sono soltanto le emergenze monumentali che meritano un'azione di tutela, peraltro diretta a salvarne le parti "originali", sacrificando le stratificazioni che ne hanno segnato la storia. Il vincolo sarà perciò riservato ad una selezionata campionatura, atta a costituire un ideale museo dei capolavori, apprezzati soprattutto per le parti più decorate, sulle quali dovrà particolarmente diffondersi la documentazione. I perimetri vincolati tendono in tale ottica a restringersi e a concentrarsi sugli aspetti più prestigiosi.

Il territorio, protagonista di una necessaria convivenza armonica delle azioni formative di epoche diverse, nell'opzione precedentemente descritta, diviene in questa concezione il supporto neutro di una valorizzazione turistica del pezzo forte e perciò dovrà essere disponibile ad un'azione anche violenta pur di portare a contatto del monumento il maggior numero possibile di visitatori. In ogni caso, le violenze al contesto potranno sempre essere attenuate da rifacimenti in stile, adatti a costruire nell'intorno scenografie rassicuranti.

Ne deriva, per i finanziamenti, una concentrazione della spesa su poche opere di grande richiamo e su importanti musei. Al vantaggio di disporre, per questi pochi fortunati testimoni del tempo, di somme considerevoli corrisponde però il limite di azioni condotte con i tempi e i metodi dei grandi appalti, necessariamente poco flessibili e spesso gravati da notevoli oneri e appesantiti da complicazioni burocratiche. E' difficile garantire la qualità e l'attenzione necessarie in operazioni accompagnate da attese politiche pressanti proprio per il loro carattere eccezionale. Sarà poi problematica la gestione locale di impianti culturali sradicati da un adeguato contatto col territorio. Se quindi la selezione dei beni su cui intervenire può apparire realistica sul piano dell'efficienza realizzativa, appare evidente che tale eventuale risultato non dà, nella maggioranza dei casi, molte garanzie contro le ricostruzioni ipotetiche, le distruzioni irreversibili di parti giudicate secondarie e la realizzazione di ingestibili cattedrali nel deserto.

Ma, al di là di questi pur notevoli pericoli, è la funzione civile del patrimonio culturale che in questa logica appare sacrificata. In mancanza di un'azione generalizzata informata al rispetto dell'esistente e al genuino confronto tra espressioni del passato e creatività attuale, non si forma nelle persone una sensibilità pronta a conservare le testimonianze del tempo e a misurarsi onestamente con loro. Le costruzioni storiche vengono allora considerate non come segni di qualificazione del paesaggio sui quali misurare la correttezza di nuovi interventi per mantenere e far crescere un'identità civile, ma come emblemi di inadeguatezza da abbandonare o, nei casi più illustri, di sfarzo da imitare.

La loro conservazione sarà riservata a quei rari prodigi e improntata all'esaltazione dei caratteri più appariscenti, destinati ad abbagliare frettolosi turisti, desiderosi soltanto di ritrovare "dal vivo" i cliché di bellezza a cui li prepara una pubblicità necessariamente appiattita e semplificatrice.

Il turismo non serve in tal caso a sviluppare l'orgoglio per la propria cultura, ma al contrario contribuisce a deformare i caratteri dei luoghi per adeguarli alle attese internazionali. Se si vuole che invece i finanziamenti dedicati alla cultura contribuiscano a migliorare e approfondire un radicamento culturale realmente diffuso tra i cittadini e quindi capace di rispettare la qualità del passato e prolungarla nell'avvenire, occorre puntare ad interventi che vedano una partecipazione coordinata dei diversi settori operanti sul territorio.

Nei tempi brevi non si può sperare che un Paese indirizzato da tempi a obiettivi industriali generalmente confliggenti col rispetto del paesaggio storico cambi radicalmente direzione, ma si possono costruire campioni limitati di territorio ove lo sviluppo avvenga in armonia con le istanze conservative.

Non si tratta di individuare "isole felici" da sottrarre al progresso perché non si corrompano, bensì di avviare una serie di azioni coordinate per dimostrare, in diverse situazioni territoriali, che è possibile far andare d'accordo la vita di oggi con l'eredità passata. In questo modo il denaro investito non servirà a produrre riserve protette in zone più vaste che così possono crearsi un alibi per la libera devastazione delle loro peculiarità, ma al contrario sperimentare, su aree circoscritte dotate di caratteri particolari, una convivenza pacifica tra restauro, riabilitazione, usi dei fabbricati e dei suoli, infrastrutture e reti tecnologiche. Il campione così investito dall'azione pianificatoria, se vorrà avere una vita duratura, dovrà legarsi ad altre esperienze simili e diverrà perciò un seme destinato a diffondere un nuovo modo di intendere l'arricchimento del territorio.

Come istituzione statale dotata di una certa esperienza nella tutela dell'architettura e dell'ambiente, siamo pronti a muoverci in sintonia con la Regione, le Province e i Comuni per affrontare insieme quella che appare come la sola possibilità per dare coerenza ad uno sviluppo ancora estremamente caotico. Altrimenti non ci resta, come tecnici interessati al paesaggio, che chinare il capo di fronte al potere del denaro e delle immagini prestigiose, lasciare che cresca il deserto intorno a pochi paradisi sempre più artificiali e rinunciare a lasciare a chi verrà quello che abbiamo ereditato.

Guglielmo Monti

Ministero per i Beni e le Attività Culturali

Soprintendente per i beni architettonici e per il paesaggio
per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso

I due documenti che seguono sono stati elaborati congiuntamente dal Comitato Mura e dal FAI nel corso del 2009 come contributo al dibattito sul recupero del castello di Padova e, in particolare il secondo, su alcune idee per "utilizzarlo" anche durante i lavori, che si preannunciano lunghi, necessari per restituirlo definitivamente alla città.

- COSA FARE DEL CASTELLO DI PADOVA?

- IL CANTIERE ARCHEOLOGICO APERTO PER IL CASTELLO DI PADOVA - una proposta

 

Comitato Mura di Padova - FAI Delegazione di Padova

COSA FARE DEL CASTELLO DI PADOVA?

Era la domanda esplicita che Andrea Colasio aveva lanciato qualche mese fa a tutte le forze in qualche modo interessate al castello e che avessero idee da proporre per il suo futuro riuso. Domanda legittima e come vedremo anche giustificata, ma secondo noi del Comitato Mura e del FAI, e non solo noi, un po' prematura.
Il convegno di sabato 18 aprile (2009 NdR) ha fornito un primo panorama di risposte (ma meglio sarebbe dire di richieste!), confermando da un lato l'interesse che suscita e le potenzialità che questa struttura, di dimensioni e volumi ragguardevoli, offre; ma confermando anche le nostre perplessità al riguardo.
Non tanto, o non soprattutto per le proposte/richieste d'uso in sé, più o meno pertinenti, quanto per il rischio che un'accelerazione eccessiva nel processo di selezione della o delle destinazioni d'uso limiti le possibilità di indagine, archeologica e storica, che solo "a bocce ferme" e senza assilli possono essere svolte con la dovuta cura e completezza, tenendo presente che l'occasione è assolutamente unica e se non verrà sfruttata, una simile opportunità potrà non ripresentarsi mai più.

Il problema dei finanziamenti

Dicevamo che la ricerca di idee per il riuso del castello è senz'altro legittima, e anche ben giustificata: è evidente che i lavori di ricerca, ripristino e restauro avranno costi elevati ed è noto che nel nostro paese, senza un concreto progetto di rifunzionalizzazione, possibilmente convincente dal punto di vista del ritorno economico, è assai più difficile che vengano messi a disposizione i fondi necessari per studiare e conservare un bene monumentale, se non per gli eventuali aspetti artistici, perfino da parte delle fondazioni, per non parlare della pubblica amministrazione, locale o nazionale che sia.

E solo una prospettiva d'uso potrebbe attrarre quei finanziamenti privati nei quali sempre si confida, troppo spesso invano.
La prospettiva che il castello resti chiuso e inutilizzabile per lunghi anni, nell'attesa che le Soprintendenze completino le loro ricerche con i risicati fondi a loro disposizione non sarebbe certo di stimolo in tal senso. Giusto quindi parlare di rifunzionalizzazione del castello, ma...

La ricerca archeologica innanzitutto

Fino ad ora tutti i lavori al castello sono stati eseguiti, e vengono tuttora eseguiti, direttamente dalle Soprintendenze, con fondi ministeriali, ma si tratta di opere destinate sostanzialmente alla messa in sicurezza delle strutture (rifacimento delle coperture, verifica strutturale e consolidamento eventuale delle murature, rimozione di poche strutture secondarie del carcere etc.) e di pulitura e consolidamento degli affreschi a mano a mano che vengono ritrovati.

La ricerca archeologica si è fino ad ora limitata a un certo numero di sondaggi mirati, che sono senz'altro serviti a conoscere aspetti e dettagli prima incerti o del tutto ignoti, come i livelli delle pavimentazioni originarie, la collocazione di un camino del tipo "carrarese", l'esatta posizione di alcuni pilastri e di conseguenza la luce degli archi del portico nord, la decorazione degli intonaci originali al piano terra dell'ala sud e così via. A quanto si sa, neppure le nuove ricerche previste a breve prevedono scavi sistematici, se non limitatamente all'ala nord, mentre per il resto dell'area sono in programma semplici sondaggi.

Ma molto, moltissimo altro rimarrà da scoprire e accertare.
Ricordando che, al di là (al disotto) del castello carrarese, cui praticamente tutti i dati finora ottenuti si riferiscono, potrebbero essere ancora rintracciabili resti delle fortificazioni precedenti o di quant'altro le abbia eventualmente precedute, non solo in età medievale (per esempio l'antica chiesa di S. Tomaso, distrutta per l'ampliamento del castello da parte di Ezzelino, nonché lo stesso castello di Ezzelino), ma pure in età romana o paleoveneta.
Forse è bene ricordare che stiamo parlando di un'area di 7500 metri quadrati, per la metà scoperta, rimasta per così dire "intatta" dal XIV secolo in poi, sotto la quale sono celati non secoli, ma millenni di storia della nostra città. E in nessun'altra parte della città così "facilmente" accessibili come qui.
Proprio per la presenza del castello infatti, quest'area ha sicuramente avuto una storia meno tormentata rispetto al resto della città entro l'ansa fluviale dell'antico Meduacus, ciò che perpermetterebbe di ottenere dati archeologici assai più chiari.

Solo pochi anni fa un piccolo sondaggio in profondità, all'esterno del castello, davanti all'edificio ex Rizzato, ha rivelato tracce di mura romane e altomedievali ("mura", non semplici "muri"). Di quelle mura romane occorrerebbe capire se proseguano verso sud, o pieghino vero est: è infatti ancora un problema aperto se e dove corresse il lato sud della cinta romana, della cui esistenza ormai nessuno più dubita. di quel muro altomedievale (di un metro e mezzo di spessore!) si vorrebbe capire se si trattasse delle fondazioni di una torre (una prima "Turlonga"? oppure di una cinta più ampia, forse opera dei bizantini?).
Perdere quest'occasione, per troppa fretta di adibire il castello a nuovi usi, potrebbe impedire in via definitiva una ricerca fondamentale e ormai non effettuabile in nessuna altra parte della città.

Anche limitando il discorso alle strutture esistenti, troppo rimane ancora da scoprire prima di capire a quali nuovi usi possano eventualmente essere destinate le varie parti del castello.
Ancora di recente sono state scoperte nuove decorazioni ad affresco nell'ala est (non ancora mostrate al pubblico) e nulla esclude che altre ne vengano ritrovate.
Senza contare che non essendo ancora stati tolti gli intonaci esterni, non sono neppure state trovate le eventuali tracce di porte e finestre antiche, che pure vi saranno.

Riusare il castello subito, si può

Con questo non vogliamo escludere che alcune parti del castello si possano cominciare ad usare anche prima che i lavori siano completati nelle parti più delicate: è ormai assodato, ad esempio, che per quanto riguarda l'ala sud, ad eccezione dei muri esterni, l'uno, quello verso la riviera, costituito per buona parte della sua altezza da un tratto delle mura comunali e quello verso la corte maggiore, di costruzione trecentesca, tutto il resto delle strutture interne risale al più all'Ottocento: lasciato il piano terra a disposizione degli archeologi, i due piani superiori sono gli spazi che meglio si prestano, per volumi e superfici, ad un uso espositivo, in qualche caso, come per l'arte contemporanea, senza neppure la necessità di particolari sistemazioni, potendo anzi risultare ancor più stimolanti per gli artisti nel loro stato di "restauro povero", dopo una semplice ripulita (molti dei recenti visitatori segnalavano anzi quanto affascinante risulti il complesso proprio nel suo stato attuale e mostravano di temere che parte di quel fascino possa andare perduto con un restauro troppo "elegante").

Un uso "provvisorio" ma di grande attrazione, come potrebbe essere una serie di mostre non già di opere già esistenti, del tipo "da-a", ma piuttosto rassegne che coinvolgano artisti disponibili a progettare opere "per" questi spazi, così come sono oggi: che vuol dire la quasi totalità degli artisti contemporanei, compresi i più importanti.
Eventi di questo tipo potrebbero garantire il flusso dei finanziamenti e mantenere viva l'attenzione del pubblico senza compromettere, o porre delle scadenze precise al lavoro di ricerca.
Permettendo al pubblico di seguire anche da vicino il lavoro di ricerca e poi di restauro, che se opportunamente valorizzato potrebbe costituire di per sé un "evento" o uno "spettacolo".
E' solo un'idea, ma vale la pena di considerarla.

Il castello e il carcere

Ciò darebbe anche il tempo di meditare con la dovuta calma sul problema dei problemi, nel caso del nostro "castello carrarese".
Che, come tale, non esiste più.
E' bene metterlo in chiaro: quello che abbiamo oggi è un carcere dismesso, sotto le cui spoglie stanno riaffiorando importanti vestigia del castello: sicuramente straordinarie, sufficienti per comprenderlo e ricostruirlo virtualmente e anche per farlo "rivedere", con qualche sforzo, al visitatore, ma non abbastanza per ricostruirlo davvero nella realtà.
Troppe le distruzioni e gli stravolgimenti operati nel corso degli ultimi due secoli.
Anche eliminando tutte le "superfetazioni", come si usa definirle, il castello non potrebbe mai riconquistare il suo aspetto medievale, se non con ricostruzioni radicali, che dovrebbero però basarsi solo su qualche traccia architettonica, su un paio di planimetrie di fine settecento, un paio di vedute della stessa epoca, un affresco trecentesco e poco altro: un tipo di operazione oggi culturalmente improponibile.
In compenso, eliminate le sovrastrutture del carcere ci ritroveremmo con uno scheletro senza più forma compiuta e circondato comunque da edifici, sempre legati al carcere, che non sono ormai più eliminabili, in particolare quelli verso Piazza Castello.
Né avrebbe particolare significato eliminare quelle sovrastrutture per sostituirle poi con altre di nuove, ancorché eventualmente disegnate da un grande architetto: rischierebbero di snaturare il luogo, cancellando un lungo tratto di storia della città, senza ridarci compiutamente una sua fase più antica.

Meglio, secondo noi, accettare l'idea di conservare pure per quanto possibile la memoria, anche architettonica, del carcere, che la città tuttora ricorda assai meglio di un castello del quale in fondo sente oggi parlare per la prima volta.
Portando al contempo alla luce quanto ancora rintracciabile del castello.
Se ben condotta, l'operazione potrebbe darci una sorta di sovrapposizione di immagini, un po' come in quelle cartoline che diversamente orientate rispetto alla luce mostrano due immagini diverse.
Il visitatore potrà vedere, a seconda di sotto quale luce voglia guardare a quel che avrà davanti, un castello trecentesco oppure un carcere otto-novecentesco, nel quale si svolgeranno poi attività contemporanee che con quelle due immagini dovranno necessariamente confrontarsi.

Solo allora, potremo davvero capire quale uso sarà più adatto a questo spazio davvero straordinario, definendo correttamente il Progetto di Rifunzionalizzazione, unitamente ad un sano Progetto di Gestione, che dovranno seguire una valida metodologia di approccio progettuale che dovrà affrontare un attento esame degli aspetti intrinseci propri dell’oggetto d’indagine e dei fattori territoriali e mediante tali valutazioni si dovrà evidenziare la reale vocazione del Castello, in funzione della quale orientare attività di restauro, rifunzionalizzazione, gestione e di mantenimento.

(giugno 2009)

Comitato Mura di Padova - FAI Delegazione di Padova


IL CANTIERE ARCHEOLOGICO APERTO PER IL CASTELLO DI PADOVA - una proposta


(Questo documento costituisce un ampliamento del paragrafo "Riusare il castello subito, si può" del documento di giugno 2009)


Abbiamo già indicato le ragioni che dal nostro punto di vista sconsigliano di scegliere già ora, o comunque a tempi brevi, la destinazione dei diversi spazi, fra le quali la prima, sempre secondo noi, è la necessità di prendere tutto il tempo necessario per sviluppare e attuare una ricerca archeologica sistematica in un'area ideale per ricostruire le vicende non solo dell'area stessa, ma anche dell'intera città, dai paleoveneti all'epoca carrarese e oltre. E ideale altresì perché in buona parte libera (la corte, l'area golenale sud, lo scoperto esterno all'ala nord), o comunque facilmente accessibile (l'interno delle ali sud, est e nord). Anche considerando che non si tratta di negare alla città spazi fino ad ora disponibili, bensì spazi mai a disposizione della città, almeno per gli ultimi due secoli, e addirittura dimenticati: qualche anno in più di mancato uso non costituirebbero dunque una tragedia.

Poiché la congiuntura economica rischia di allungare comunque i tempi di realizzazione dei restauri e della rifunzionalizzazione del complesso, o peggio, rischia di costringere ad attuarli in economia, vorremmo meglio precisare una strategia alternativa, che in qualche modo capovolge il punto di vista, trasformando il castello da potenziale contenitore di strutture e manifestazioni "altre" (musei, spettacoli etc), in contenuto di un "evento" a lungo termine.

Invece di puntare a far "rivivere" il castello il più presto possibile, adibendone gli spazi ad usi più o meno appropriati, che diventerebbero essi stessi l'attrazione, di cui il castello diverrebbe solo un contenitore, pur se di lusso e con attrattive proprie, si dovrebbe puntare a far "vivere la riscoperta" del castello nel suo farsi, spettacolarizzando proprio il processo di ricerca, e facendovi partecipare, per quanto possibile direttamente, la cittadinanza e in particolare la popolazione studentesca, universitaria e non.

Senza dimenticare i turisti. Per i quali il "cantiere archeologico aperto" o "cantiere vivo" del castello (va trovata una definizione accattivante), dovrebbe in quanto tale diventare una nuova attrazione di Padova, trovando posto nell'elenco dei musei e dei monumenti cittadini da proporre negli itinerari turistici, per quanto possibile con orari di apertura regolari, anche se ovviamente con percorsi e modalità mutevoli con il progredire dei lavori.
Magari dedicando ogni visita, o ciclo di visite, a un tema diverso, anziché offrire ogni volta un pano- rama generale, necessariamente generico. Magari coinvolgendo di volta in volta storici e archeologi. Non sarà a quel punto fuori luogo far pagare un biglietto di ingresso. Ci rendiamo conto che i problemi non sarebbero pochi: in primo luogo quelli relativi alla sicurezza, ma l'esperienza ha dimostrato che si possono risolvere.

Per un simile progetto occorrerebbe ovviamente coinvolgere tutte le forze disponibili. Non quindi soltanto le Soprintendenze, che potrebbero comunque preparare qui, sul campo, il loro personale, ma anche l'università, in tutte le sue articolazioni che abbiano un qualche rapporto con le diverse tematiche che la ricerca offre: i dipartimenti e le cattedre di storia, antica e medievale, di archeologia, di archivistica e via dicendo.
Le personalità eminenti nei diversi campi a Padova non mancano e potrebbero essere indotte a convogliare sull'area del castello, per qualche tempo, le loro attività didattiche.

E se allo studio nel suo svolgersi potranno assistere anche i cittadini, se alle acquisizioni verrà data tempestiva divulgazione, con pubblicazioni e altro, potremo vantarci, fra qualche anno, di aver costruito a Padova un’esperienza forse unica, un cantiere della conoscenza di enorme valore. E avremo un complesso monumentale noto in ogni suo dettaglio e a quel punto destinabile, con piena cognizione di causa, ai nuovi usi più adatti ed opportuni. Diversamente da quanto è avvenuto di recente con l'ex convento dei Teatini, del cui passato, tribunale a parte, i padovani erano e rimangono del tutto all'oscuro e del cui uso ancora si discute.

D'altra parte, anche durante la fase di ricerca, come già ricordato nel precedente documento, sarà ugualmente possibile ospitare nel castello manifestazioni, soprattutto d'arte contemporanea, ma eventualmente anche di teatro o di altre forme espressive, che a quel punto verrà quasi naturale individuare e indirizzare in modo che dialoghino per quanto possibile con uno spazio così cruciale per la storia della città e contribuiscano, con gli strumenti loro propri, alla conoscenza del castello, di quanto lo ha preceduto (la città paleoveneta, la città romana...) e di quanto lo ha seguito (la specola, il carcere...).

Sul piano pratico le strategie sono tutte da inventare e costruire, ma sarebbe davvero vitale che passasse l'idea forte che non solo un importante castello-reggia trecentesco si può ritrovare sotto le spoglie di un carcere in abbandono, non solo un secondo castello, tuttora da riscoprire, quello di Ezzelino, che vive oggi solo nelle cronache dei nemici e detrattori del "tiranno", non solo, forse, una chiesa medievale, non solo, ancora forse, la risposta definitiva sulla perimetrazione della città romana, ma sicuramente una messe di dati fondamentali per la ricostruzione della primitiva storia della nostra città.

(settembre 2009)


Comitato Mura di Padova - FAI Delegazione di Padova

 

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da "Padova e il suo territorio" n. 138, aprile 2009

IL CASTELLO DI PADOVA
E LE OPERE DELLA DIFESA


VITTORIO DAL PIAZ

Il Castello come componente del sistema difensivo della città,
e i criteri cui attenersi nel suo restauro e rivitalizzazione.


L'associazione "Comitato Mura di Padova" che rappresento opera da più di un trentennio al fine di salvaguardare il maggior 'monumento' della città, che con i suoi undici chilometri di circuito, lambito per oltre tre chilometri dalle acque, malgrado le pesanti trasformazioni che ha subito tra Ottocento e Novecento, connota ancora aggi la forma urbis. Nato in un periodo di vivace fermento dell'associazionismo padovano - basti qui citare la "Comunità per le libere attività culturali," più conosciuta come CLAC -, il Comitato Mura estendeva il proprio interesse all'intero sistema difensivo urbano, che vede proprio nel Castello il suo fulcro principale [1]. Non solo quindi il grandioso fronte bastionato che la Repubblica veneta realizzò nell'arco di alcuni decenni dalla conclusione della guerra promossa dalla Lega di Cambrai, che nel 1509 vide nell'assedio di Padova uno tra gli eventi più significativi della vicenda, ma anche il sistema delle fortificazioni precedenti, quelle comunali e carraresi, anch'esse 'generatrici' di forma urbana.
Con la piena consapevolezza che la miglior tutela dei beni culturali si ottiene attraverso una loro approfondita conoscenza, come con una costante opera di divulgazione, coinvolgendo la partecipazione dei cittadini, la nostra attività istituzionale si è caratterizzata con tutta una serie di iniziative, volte in particolare al mondo della scuola, ma dirette a tutti i cittadini e agli amministratori pubblici. Ne accenniamo alcune, quelle che meglio possono esprimere il concetto base che è stato sempre presente, anche se può apparire scontato: le opere della difesa della città, come ogni fenomeno urbano, vanno considerate nel loro disegno complessivo e nella loro evoluzione, quindi il 'sistema' non può essere letto per punti singoli, slegato dal contesto originario, specialmente quando esso è stato frazionato, interrotto, fortemente alterato o cancellato del tutto. In quest'ottica, con il duplice scopo di ricerca e di sensibilizzazione, si è collocata l'iniziativa che ha analizzato le strutture medievali della città e che, nel 1987, è andata a buon fine con I'allestimento della mostra Le mura ritrovate[2]. Lo studio, iniziato per merito di Paolo Giuriati, benemerito animatore del "Centro ricerche socio-religiose", ha portato in particolare alla individuazione di tracce 'fisiche' delle mura carraresi che, secondo diversi autori, erano - se non completamente ignorate - date per completamente perdute.
L'occasione ha anche consentito la realizzazione di un plastico, sovrapposto alla pianta di Padova di Giovanni Valle, che propone con una buona attendibilità la ricostruzione del tracciato delle mura comunali e carraresi [3].plastico Il modello, utilizzato efficacemente ancora oggi nelle attività didattiche, fa percepire con immediatezza l'intero sistema fortificato nella sua vastità e complessità, con le sue alte cortine, torri e porte e quelle importanti strutture, come appunto il Castello, il Soccorso, la Cittadella vecchia, la Cittadella nuova, il Traghetto e la Reggia, che rappresentano un unico disegno urbano. Risulta particolarmente evidente il circuito più esterno dei da Carrara che, cinquecento anni or sono, adattato in modo da poter resistere alle nuove potenti artiglierie d'assedio, resistette all'assalto delle truppe della Lega al comando di Massimiliano d'Asburgo.
Il catalogo della mostra, oltre ai saggi di vari autori, propone un percorso 'virtuale' di tutto il sistema, avvalendosi di immagini dell'oggi messe a confronto con la documentazione grafica storica
[4]. E questo non certo per mostrare romanticamente 'come eravamo', ma per documentare e far comprendere I'importanza di queste testimonianze, specialmente per quelle meno appariscenti, o non prese in considerazione: quindi più un manuale finalizzato a progettare la loro valorizzazione e tutela, che un semplice testo di storia patria.
Il tema del progetto, intendendo per questo termine tutte le operazioni che incidono sul manufatto, da quelle di analisi a quelle di manutenzione e di restauro, è stato affrontato in diverse occasioni, e qui ne ricordiamo due significative: la proposta per il pubblico Macello di via Cornaro e lo studio commissionato dal Consiglio di Quartiere Centro storico. Per il primo caso, nell'estate del 1978, la rivista "Padova e la sua provincia" dedicò un fascicolo all'ex Macello, ove, oltre ai saggi di carattere storico, veniva tracciato, a più voci, lo stato dell'arte della battaglia che, iniziata cinque anni prima, doveva portare nel tempo ad alcuni - seppur parziali - successi, in particolare il salvataggio in extremis della grande sala macellazione bovini, ma specialmente all'emanazione del vincolo di tutela all'intera area di pertinenza (compresa quella del bastione Buovo con il serbatoio d'acqua del Macello), riconoscendo nell'intero complesso un importante esempio di archeologia industriale, e rendendo così inefficace ogni futura possibilità speculativa
[5].
Agli inizi degli anni Ottanta il Consiglio di Quartiere Centro storico commissionava uno studio che affrontasse, per la prima volta, il tema 'mura' - pur limitato a quelle veneziane - che era ormai diventato di attualità.
La lettura dell'intero circuito, messa in evidenza dalla redazione di vari elaborati grafici, definisce i confini del 'sistema', per poi fornire le indicazioni progettuali relative alle acque da 'riaprire', alle aree verdi, agli edifici notevoli da salvaguardare, a quelli da abbattere, a quelli da valutare caso per caso. Il progetto, consegnato nel 1986 con il titolo Sistema bastionato di Padova. Analisi e proposte, assumeva il ruolo di 'strumento guida' per proposte una visione unitaria, non frammentata, dell'anello fortificato, demandando a successivi piani di settore o di dettaglio la definizione di temi specifici, ma sempre in un'ottica generale (emblematico il fatto che l'incarico del Consiglio di Quartiere era limitato inizialmente alle mura di propria competenza)
[6].
Alcune brevi considerazioni, semplificate per necessità di sintesi. Padova a fine Settecento, con il tessuto urbano antico e il sistema delle acque ancora nella loro integrità, aveva come confine il fronte bastionato rinascimentale, e il rapporto città-campagna era ancora netto; le mura non avevano subito nei secoli eventi bellici (l'assedio, ricordiamolo sempre, è anteriore alla loro costruzione). Padova è andata poi nel tempo a perdere, come Treviso, il ruolo di città fortezza a difesa della Dominante, e ha visto via via diminuire ogni particolare interesse difensivo, come è anche dimostrato dal fatto che, ormai a ridosso della caduta della Repubblica veneta, i ponti levatoi delle sette porte vennero sostituiti da arcate in muratura.
L'unico episodio legato alle vicende militari nel quale vengono coinvolte le mura è dovuto alle truppe napoleoniche del generale Dauvergne, quando nel marzo 1801 procederanno al "diroccamento della muraglia" lungo il fronte occidentale della cinta, causando con brillamento di mine notevoli danni al torrione Impossibile e ai bastioni Savonarola, S. Prosdocimo e S. Giovanni (e forse anche al Moro I, come sembrano confermare le indagini che proprio in questi giorni si stanno effettuando nel corso dei restauri).
Cinquant'anni più tardi, negli ultimi anni della dominazione degli Asburgo, il Genio militare austriaco, dopo aver analizzato le strutture cinquecentesche, non diede seguito all'ipotesi di adeguarle ai nuovi dettami dell'arte militare, come aveva già messo in atto nelle città del Quadrilatero, in particolare a Verona. Questa rinuncia ricorda in qualche modo quella della Serenissima, quando non si completò il Castelnuovo, la nuova grandiosa fortezza prevista a Ognissanti, ritenendo ancora sufficienti per una città come Padova le antiche strutture del Castello.
rifugioL'unico impiego 'difensivo' delle mura si verificò durante le due guerre mondiali, con la utilizzazione di spazi ipogei dei bastioni come rifugi antiaerei, che in entrambe le circostanze si risolse in tragedia, con la morte di numerosi civili nei bombardamenti aerei dell'11 novembre 1916 e dell'8 febbraio 1944. Nel primo caso, al bastione della Gatta, le vittime saranno oltre novanta, nel secondo, al bastione Impossibile, la strage sarà ancora maggiore, dimostrando che queste strutture non fornivano nessuna protezione alle bombe aeree
[7].
Salvo questo inefficace e tragico utilizzo, la primitiva funzione difensiva era stata persa da lungo tempo, mentre si era invece mantenuta quella di confine amministrativo e daziario, e, tra Ottocento e Novecento, si era già assistito alle profonde trasformazioni che hanno portato alla situazione attuale: apertura di brecce, abbattimenti delle cortine, eliminazione di terrapieni, riempimento delle fosse. edificazione di aree interne ed estreme del sistema, andarono di pari passo con l'interramento dei canali, gli allargamenti stradali e la distruzione di ampie zone di tessuto storico. E' la nuova città che considera il sistema fortificato come 'bene di consumo', e non è un caso che il Comune, nell'aprile 1882, acquisti dal Demanio nazionale "gli spalti e le mura che li sostengono e le fosse che circondano la città di Padova, nonché le Porte della Città stessa, gli annessivi fabbricati ad uso di uffici Daziari e le Casematte sottoposte agli spalti", rendendo così più spedite le operazioni che le coinvolgevano
[8]. Il fatto poi che un complesso monumentale come il Castello fosse mantenuto ad uso carcerario, non sembra aver suscitato particolare scandalo. Le trasformazioni e le costruzioni che hanno interessato il sistema bastionato nell'arco di quasi due secoli, si sa, non sono state tutte negative: nessuno - almeno si spera - si sognerebbe di eliminare il macello di Giuseppe Jappelli a Porciglia, quello di Alessandro Peretti, le Scuole all'aperto, il serbatoio dell'acquedotto, l'edilizia popolare, ecc.
Sorge qui il problema, sempre presente nel campo del restauro e del recupero architettonico, di cosa si può - o si deve - eliminare, ovvero cosa si consideri come 'superfetazione', aggiunta impropria meritevole di cancellazione. E' prassi ormai consolidata - anche se spesso disattesa - che vada mantenuto ogni elemento che 'racconti' una storia significativa e che sia frutto di un progetto: nel caso delle mura, ad esempio, vanno salvaguardati anche i muri paraschegge e gli altri elementi che ne documentano la riduzione a rifugi antiaerei, I'ultima - e tragica - funzione di difesa che hanno svolto, come ovviamente tutte le architetture di qualità che hanno segnato la storia della città.
Un esempio da considerarsi emblematico - e che ci riporta al tema del Castello - riguarda l'edificio che ora ospita il Dipartimento di Astronomia dell'Università e che al tempo del suo recupero fu oggetto di accese polemiche. specolaSe ne chiedeva infatti la demolizione, in quanto "spregevole fabbricato" che nascondeva la cortina muraria, in una improbabile ottica del "dov'era, com'era": non sembrava sufficiente il fatto che fosse stato realizzato nei primi anni Venti dell'Ottocento e che risultasse uno degli ultimi esempi di edificio a destinazione mercantile in stretto rapporto con le acque
[9] Cosa avrebbe portato una dissennata demolizione del fabbricato? Oltre a cancellare la sua ultrasecolare storia e ogni traccia delle sue molteplici attività, iniziale come "stabilimento" Sinigaglia, per terminare come officina di montaggio biciclette della ditta Rizzato, avrebbe prodotto lo stesso effetto che a Montagnana si è ottenuto eliminando la caserma austriaca accanto a porta Padova: una ferita alle mura che potrebbe essere risarcita solo con una inattuale ricostruzione stilistica.
L'intervento di recupero, condotto con tutte quelle analisi preventive che devono in ogni caso precedere ogni ipotesi progettuale che riguardi il costruito (rilievo scientifico, indagine storica, saggi archeologici e stratigrafie degli elevati, ecc.), che consentono - come hanno consentito - di non avere 'sorprese' in corso d'opera, ha portato alla liberazione della torretta con la porta carrarese, e alla messa in luce del rivelino fornito di fossa e ponti levatoi, elementi del tutto ignoti di cui si era persa ogni notizia
[10]. In altre parole, oltre alle opportune azioni di sensibilizzazione, questo metodo ha comportato l'attuazione di quel 'cantiere della conoscenza' che deve essere il costante criterio da seguire per il futuro riscatto del Castello, preliminare anche ad ogni proposta di utilizzo che non si prefiguri a monte di tutte le indagini necessarie. E' questo, anche se può apparire scontato ai più, l'approccio metodologico che si ritiene opportuno seguire, come peraltro è stato meritoriamente già messo in atto dalle Soprintendenze, che ci si augura siano messe in grado di continuare nelle operazioni di analisi, di messa in sicurezza e di bonifica.
Ben vengano le proposte di destinazione d'uso con tutte le implicazioni del caso, dal contenuto culturale alla gestione, dai finanziamenti necessari alle possibilità future di ulteriori annessioni, ma non si definisca a priori quello che dovrebbe essere la migliore soluzione di un utilizzo compatibile del Castello senza gli opportuni approfondimenti, come anche, nel campo più propriamente progettuale, non si diano indicazioni preconcette o affrettate.
E invece c'è già chi propone l'abbattimento della muraglia del carcere con il passaggio di ronda che si affaccia su riviera Tiso da Camposampiero per poter 'vedere' il Castello, dando allora anche per scontata I'eliminazione dei capannoni industriali che sono nel mezzo, strutture che sono viceversa da analizzare con attenzione e che non vanno certo condannate a priori
[11]. Gli strumenti di indagine e di simulazione oggi non mancano, è sufficiente applicarli come irrinunciabili operazioni propedeutiche ad ogni soluzione progettuale. Cosa e come mantenere di una struttura tanto prestigiosa quanto martoriata, non è un aspetto marginale. Nessuno dovrebbe pensare che si possa ritornare ad un ipotetico originale (e poi quale?). Bisognerà invece procedere, come si è operato finora, in modo prudentemente selettivo, conservando le diverse 'anime' e storie del Castello.

da "Padova e il suo territorio" n. 138, aprile 2009
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[1] L'associazione è stata presieduta nel tempo da Giulio Bresciani Alvarez, Lionello Puppi, Patrizio Giulini, Adriano Verdi,
Paola Valgimigli, Luciana Bonvicini, Gianumberto Caravello e chi scrive.
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[2] L'esposizione ha avuto luogo presso l'Oratorio di S. Bovo dal 28 novembre al 20 dicembre 1987, per poi essere ripetuta nei Magazzini del Sale di Palazzo Moroni dal 21 luglio al 7 novembre 1989. E' stata infine ospitata nella Fornace Carotta dal 27 gennaio al 10 febbraio 2006.
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[3] Il plastico è stato realizzato dall'arch. Alessandro Bonomini; era presente anche un diorama raffigurante un tratto di mura e figurini del periodo carrarese, opera di Vanni e Angiolo Lenci.
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[4] AA.VV., Le mura ritrovate, a cura di A. Verdi, Panda Edizioni, Padova 1987 (ried. 1988 e 1989).
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[5] "Padova e la sua provincia", XXIV (1978), 7, luglio. Il fascicolo riporta gli articoli di G. Bresciani Alvarez, Le strutture urbane e le mura cinquecentesche di Ognissanti, di V. Dal Piaz, Il pubblico Macello nell'area di S. Massimo e, a cura della CLAC, Situazione del verde, Cosa conservare e come, Cronaca di una proposta culturale. La Comunità per le libere attività culturali in quegli anni riuniva gran parte dell'associazionismo culturale attivo in città: ne facevano parte attiva, tra gli altri, il Comitato Mura, il Gruppo speleologico del Club Alpino Italiano, sezione di Padova, il Centro d'arte, il Comitato difesa colli euganei, il Gruppo astrofili, il Gruppo micologico, il Gruppo mineralogico euganeo, la Società archeologica veneta, la Società naturalisti, Il Teatro popolare di ricerca, il WWF Padova.
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[6] Il progetto, che rispecchiava - e rispecchia ancora - la linea culturale dell'associazione, è stato redatto dagli architetti Aldo De Poli, Gabriella Ivanoff, Adriano Verdi e Vttorio Dal Piaz. Oltre ai criteri d'intervento, è stato stigmatizzato il concetto di 'sistema' (fossa, cortina, terrapieno, porte e bastioni, strade di circonvallazione interna ed esterna), fatto che ha poi portato ad una più corretta delimitazione del Centro Storico, esteso al limite della circonvallazione esterna, da dove iniziava il "guasto".
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[7] Si vedano a proposito i due opuscoli omaggio, pubblicati grazie alle attività di collaborazione con il Consiglio di Quartiere 5, 8 Febbraio 1944 al bastione Impossibile (2006 e 2008) e 11 novembre 1916 al torrione della Gatta (2008). Già nel gennaio 1917, un manifesto del Comune, che presentava una prima lista dei rifugi pubblici (per le mura sl citano le casematte di S. Massimo e di S. Prosdocimo e il bastione dell'Impossibile), avvertiva "a buon fine… che i posti di rifugio non possono offrire che una sicurezza relativa data la qualità e la potenzialità delle bombe".
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[8] La trascrizione integrale dell'atto e la rielaborazione degli apparati grafici catastali sono in V. Dai Piaz, A. Ulandi, Mura di Padova. Compra-vendita immobiliare 8 aprile 1882 con cui il Demanio vendette al Comune di Padova gli spalti e le mura che li sostengono e le fosse che circondano la Città di Padova, nonché le porte della Cíttà stessa, gli annessivi fabbricati ad uso di uffici Daziari e le Casematte sottoposte agli spalti, Il prato, Padova 2004.
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[9] Non vi è qui lo spazio anche solo per riassumere tutte le vicende che hanno riguardato il recupero, da parte dell'Università, del fabbricato (altrimenti destinato ad uso privato), che ha portato alla liberazione della terza porta medievale di Padova. Una descrizione dell'intervento è in Iginio Cappai, Pietro Mainardis, Il progetto di restauro dell'edificio ex Rizzato al Castello di Padova, in Il Bo, n. unico sull'edilizia 1994-95, suppl. a "Galileo", 62, 1994, p.36-39.
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[10] Per i primi risultati d'indagine si veda S. Tuzzato, G. Mengato. Notizie, scavi e lavori sul campo. Un saggio di scavo presso il Castello di Padova. Archeologia Medievale, XXII (1995), p. 241-252; e anche, dello stesso autore, Il Castello di Padova fino ai Carraresi e le nuove ricerche (1994-2004), in I luoghi dei Carraresi, a cura di D. Banzato e F. d'Arcais, Canova edizioni, Treviso 2006, pp. 72-79. Nello stesso volume, A. Draghi, La porta d'acqua del Castello, pp. 80-82.
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[11] Qualcuno in passato aveva chiesto anche l'atterramento del "serbatoio" che sorge sul saliente ad Ovest del ponte dell'Osservatorio, senza essere a conoscenza che si tratta di una attrezzatura astronomica, I'Equatoriale Dembowski, entrato in esercizio nel 1883.
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Questa sezione ospita interventi e opinioni su conservazione, restauro e riuso delle opere della difesa in generale e su quelle della città di Padova in particolare, intendendo con ciò le mura veneziane, quelle medievali, il castello, e tutto quanto sia in qualche modo correlato alle strutture difensive, dai corsi d'acqua che le fiancheggiano a quanto costruito nel corso del tempo dentro, sopra o accanto ad esse, come rifugi antiaerei, aule scolastiche, macello, case popolari o, nel caso del castello, osservatorio, carcere, edifici industriali e così via.

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